Detroit: Become Human è la terza avventura grafica sviluppata da Quantic Dream come esclusiva Sony Playstation, per quanto la software house avesse già portato sul mercato i giochi Omikron: The Nomad Soul e Fahrenheit/Indigo Profecy, rispettivamente nel 1999 e nel 2005.
Quest’ultimo rimane, ad oggi, il miglior “film interattivo” dell’azienda francese dal punto di vista del gameplay, mentre la gestione narrativa degli eventi risultava già ai tempi estremamente caotica, superficiale e affrettata, al punto da rendere confusi (e poco sensati) buona parte dei finali raggiungibili in base alle scelte e le azioni effettuate durante gli eventi della storia: eppure, la difficoltà dei numerosissimi QTE, il tempo centellinato per la selezione durante i dialoghi a scelta multipla e il basso margine di errore riescono a compensare la trama traballante, nata da un “frullato” delle più blasonate teorie esoteriche e/o cospirazioniste.
Detroit: Become Human è il miglior lavoro di Quantic Dream
Senza troppi giri di parole, Detroit: Become Human è il miglior lavoro di Quantic Dream e del CEO David Cage, che in questa sua ultima creazione ricopre sia il ruolo di direttore che di scrittore/sceneggiatore: uscita il 25 Maggio 2018, la nuova esclusiva PlayStation 4 vanta un comparto grafico che spreme non poco l’hardware Sony e lascia a bocca aperta per la cura nella realizzazione di volti, sguardi ed espressioni vista in tempi recenti solo grazie al God of War di Cory Barlog e merito anche di un cast attoriale e uno staff tecnico estremamente competenti.
Detroit: Become Human presenta anche un comparto sonoro di alto livello e un doppiaggio italiano sopra la media videoludica, per quanto alcuni personaggi manchino della “scintilla” presente nella versione inglese. Anche le musiche sono sempre azzeccate e i temi dei tre protagonisti riflettono alla perfezione il loro carattere e le loro storie, dimostrando particolare cura nell’analisi dei personaggi.
Particolare cura nell’analisi dei personaggi
Analisi, tuttavia, che come sempre David Cage dimentica di fare nel momento in cui le sue storie escono fuori da un clima intimo ed emotivo, finendo nel macroscopico: per quanto alcune “ingenuità” possano essere giustificate e contestualizzate, l’intera gestione politica, militare ed economica del problema degli androidi devianti (che hanno quindi sviluppato coscienza e sentimenti, ribellandosi al proprio status di “elettrodomestici parlanti”), della reazione dei media e della popolazione di Detroit e, soprattutto, delle cause e conseguenze che portano alla rivolta dei robot sono trattate con estrema superficialità, con alcune possibili scelte che scadono in vere e proprie incoerenze di sceneggiatura.
Rispetto ai precedenti giochi Quantic Dream, Detroit: Become Human è quello con più ramificazioni e scelte, tanto irrilevanti quanto fondamentali: quasi tutto ciò che il giocatore decide nel corso della propria avventura avrà ripercussioni a medio e lungo termine e questo fa “perdonare” alcuni finali al limite del nonsense, soprattutto se paragonati a ciò che pare a tutti gli effetti essere la “linea narrativa principale”, da cui sono stati poi elaborate “versioni alternative” molto più inconsistenti.
Non esistono scelte giuste o sbagliate
È comunque un dato di fatto (e oggetto stesso della campagna pubblicitaria del videogioco) che non esistono scelte giuste o sbagliate, canoniche e non canoniche: il giocatore ha piena facoltà di costruire la propria storia e vivere (o subire) le conseguenze delle proprie decisioni, a prescindere che queste vengano o meno apprezzate.
Detroit: Become Human è il gioco della software house francese con maggiori sfumature narrative, ma meno interattività: i quick time event (se giocati in modalità Esperto) possono essere davvero ostici e facilmente fallibili, con la difficoltà media del titolo che però supera di poco quella di Beyond: Due Anime e un impegno richiesto quasi inesistente per la risoluzione degli enigmi. Tutto questo, purtroppo, rende l’esperienza minimamente impegnativa solo per videogiocatori davvero occasionali.
Se quindi Detroit: Become Human appare come un prodotto eccellente dal punto di vista del livello produttivo generale e una vera e propria perla sotto l’aspetto estetico, in titoli così fortemente story-founded trama e intreccio risultano elementi imprescindibili dal giudizio complessivo e certe leggerezze non possono essere trascurate.
Pur rifiutando l’etichetta di “sci-fi”, David Cage si è pesantemente ispirato a mostri sacri del genere, come Blade Runner e Io, Robot e ha impreziosito la sua opera con citazioni a Matrix e easter egg sul Metal Gear Solid di Hideo Kojima; uno dei personaggi principali, l’androide modello Connor RK800, arriva a citare testualmente il “fratellastro” T800 (Terminator) con uno sfacciatissimo “I’ll be back” e a mimarne non pochi comportamenti nel caso si compiano determinate scelte durante l’avventura.
Queste e molte altre “chicche” da una parte dimostrano che la scrittura dietro Detroit: Become Human ha avuto ottime muse, dall’altra caricano la narrazione di una supponenza e presunta profondità che il gioco, di fatto, non ha: come già accennato, l’autore dimostra notevole sensibilità nel realizzare scene toccanti nel caso a interagire siano pochi personaggi (il cortometraggio Kara è ancora oggi una sequenza dal forte impatto emotivo), ma ha sempre mancato e continua a mancare il punto nel momento in cui esce dal seminato e punta a narrazioni ampie, che descrivono macrorealtà come una nazione o, semplicemente, una città come Detroit.
La devianza degli androidi e la psicologia dei personaggi secondari sono trattate in modo estremamente superficiale, tra il banale, l’incoerente e il macchiettistico; le scene d’azione starebbero bene in un film d’azione di serie B, dove la fisica e la logica sono optional immolati all’epicità delle scene; la reazione dell’umanità alla ribellione androide sarebbe potuta essere un’occasione fantastica per sviscerare temi molto profondi: l’immortalità, il senso della vita, la percezione del mondo e delle emozioni, come l’autocoscienza e la libertà possano portare ogni essere vivente, sia esso organico o artificiale, a prendere la strada sbagliata e quindi “passare al lato oscuro”, a maggior ragione se ispirati e programmati da “mentori” imperfetti e fallibili come gli esseri umani…
Tutto viene però ridotto a una blanda condanna sociale sulla discriminazione e paura del diverso, tema trito e ritrito, trattato da decenni e con mezzi e maniere molto più profondi anche nel settore dell’intrattenimento poco filosofico e su come, a causa di una visione assai banale della situazione, gli androidi siano vittime, tratteggiati come tali anche dopo aver accoltellato trenta volte il proprietario, mentre gli umani saranno sempre figure negative, ubriache, violente, drogate, maleducate, ipocrite, volgari, prepotenti o un insieme del tutto, illuminate da un raggio di bontà se e solo se condanneranno o criticheranno questo o quell’altro aspetto della propria specie.
Al di là di ciò che, a conti fatti, è una trama estremamente semplice e con una morale poco convincente e che puzza di già visto e sentito, il comparto tecnico e le capacità attoriali del cast compensano la cronica mancanza d’idee originali di Cage e offrono al giocatore/spettatore quelli che sono senza ombra di dubbio i protagonisti ad oggi meglio scritti dell’autore e momenti tanto epici quanto commoventi, dalla regia fortemente cinematografica e in grado di offrire momenti magari non memorabili o toccanti, ma sicuramente sconvolgenti sotto l’aspetto estetico per ciò che una console Sony di ottava generazione è capace di regalare ai videogiocatori.
Se non pretendete l’erede di Blade Runner o dell’opera più famosa delle sorelle Wachowski, Detroit: Become Human è sicuramente una piccola perla che merita un investimento in tempo e denaro e, se approcciato senza aspettative troppo alte e alla ricerca di sofismi rivoluzionari, potrebbe regalare una buona dose di emozioni, sorrisi e, perchè no, qualche lacrima.