Inizia un nuovo incubo con Resident Evil Village, il titolo della nostra recensione provato nella sua versione per Xbox Series X. L’ottavo capitolo del celebre survival horror di Capcom coincide con una ricorrenza importante. La saga compie, infatti, i suoi 25 anni di attività. Un traguardo importante questo, che vede una storia che inizia nel lontano 1996 sull’amatissima PS1. E chi si scorda i terribili enigmi della Spencer’s Mansion, un capolavoro architettonico intriso di malsana follia. Ed era solo l’inizio della lunga carriera di Resident Evil.
Resident Evil Village non è da intendere solo come un nuovo capitolo, in realtà è molto di più. Tralasciando i soliti – ma molto importanti – aspetti come storia e gameplay, il gioco presenta molti messaggi da cogliere. Alcuni espliciti (come il tributo di Sir Spencer), altri velati (il castello di Alcina Dimitrescu non vi ricorda proprio nulla?). In generale, però, Capcom ci fa capire che questo non è punto di arrivo o uno pseudo capitolo conclusivo. Quello che abbiamo davanti sono le prove generali per qualcosa che verrà, una nuova forma della saga.
Se avete giocato a Resident Evil VII Biohazard ricorderete il buon vecchio Ethan Winters, protagonista anche in Village. La serie di sfortunati eventi della Baker’s House erano solo l’antipasto. Il piatto forte lo trova in Europa, in un villaggio sperduto della Romania. Qui dovrà ritrovare sua figlia Rose, rapita in circostanze misteriose. Ethan appare più maturo e segnato dalla precedente esperienza in Louisiana. Le paludi del Bayou hanno forgiato il carattere di questo uomo, creandone un eroe della porta accanto.
Tra vecchi e nuovi personaggi, il cast convince, con Lady Alcina Dimitrescu che svetta dall’alto dei suoi quasi 3 metri di altezza. I personaggi, però, sono solo una piccola parte di questo ennesimo capolavoro firmato Capcom. Lasciandoci alle spalle la nostra consueta premessa, vi lasciamo alla recensione di Resident Evil Village, titolo, vi ricordiamo, provato nella sua versione per console Xbox Series X.
Una lezione di immersione
Bene, siamo pronti per iniziare il nostro viaggio con la recensione per Xbox Series X di Resident Evil Village. Capcom riesce a costruire un’esperienza con un altissimo tasso di immersione. Per fare questo attinge dal suo core business, quello della paura, riproponendo metodi già visti nel settimo capitolo. Luci e suoni vengono migliorati dalle potenzialità della nuova generazione. Lato grafico si viaggia con una risoluzione 4K in coppia con un frame rate di 60 fps.
Numeri non da poco ma in linea con lo stile del colosso giapponese, che vuole sempre il meglio del momento. Il ray tracing, poi, è in grado di accendere – nel vero senso della parola – ogni tipo di ambientazione. Il colpo d’occhio, però, arriva più nei luoghi chiusi che in quegli aperti. Il merito di tutto questo sta nel level design. E mentre noi ammiriamo la bellezza del tutto, non abbiamo mai quella tranquillità per godersi il momento. Ci si sente sempre braccati da qualcuno o qualcosa. E tutto questo non si chiama per caso immersione?
La prospettiva innovativa di questa nuova iterazione della saga è utile per capire come il passaggio dalla terza alla prima persona sia stata una mossa vincente. I puristi, come chi vi scrive, ci hanno messo un po’ per capire se poteva funzionare. Resident Evil Village lascia pochi dubbi in merito: la saga ha la sua nuova forma. Dal villaggio al castello, la prima parte serve come rodaggio e occupa una bella fetta rispetto all’esperienza generale di gioco. La restante parte del gioco, infatti, ripropone lo schema villaggio/residenza, con il primo che funge da hub.
Resident Evil Village, rispetto a tutti i suoi predecessori, introduce il concetto di mini-boss. Un qualcosa di simile si era già sfiorato nel settimo capitolo, affrontando – o evitando – gli “svitati” della famiglia Baker. Questa volta ci saranno delle boss-fight più o meno impegnative. Difficili sì, ma non impossibili. I pattern di attacco si svelano già in occasione del primo incontro, rendendo il tutto forse troppo facile.
Cogliere i segni
Giocando a Resident Evil Village si ha come la sensazione che qualcosa o qualcuno ti sussurri all’orecchio. Non si tratta di un effetto sonoro, ma è il sottotesto del gioco che propone situazioni in grado di stimolare emozioni e sensazioni. Il concetto del villaggio è stato introdotto per la prima volta in Resident Evil 4. Quello fu un capitolo di rottura con la saga originale, visto che dalle claustrofobiche ambientazioni della trilogia precedente – con la piccola eccezione di Raccoon City in Resident Evil 3 – si è passati ad una logica più open-map. Questo trend è stato rispettato, poi, in occasione del quinto e del sesto capitolo della serie.
All’alba del settimo capitolo il risultato era quello di due trilogie che offrivano due dinamiche di fruizione completamente diverse, entrambe con un loro appeal. Capcom non si è sentita di entrare in maniera decisa, includendo dinamiche coerenti con la prima trilogia storica. L’elemento di novità diveniva, quindi, quello della prima persona, con un cambio di prospettiva assolutamente inedito per il brand Resident Evil. Tanto è bastato per riaccendere un nuovo interesse verso la saga, che rischiava di entrare nel limbo del “solito”.
Lo sviluppo di Resident Evil Village, secondo quanto dichiarato dagli sviluppatori, è iniziato subito dopo Biohazard. Questa continuità narrativa si percepisce in maniera tangibile. Di fatto gli eventi proseguono in maniera naturale, senza generare alcuna frizione nel continuum della storia. Lo “stacco” lo si percepisce nell’insolito senso di libertà fornito dal villaggio, più FPS che FPP. Le sessioni “all’aperto”, infatti, generano questo elastico immaginario che alterna le dinamiche di gioco, e quindi, la fruizione dei momenti di gioco.
Ebbene, Capcom ci vuole dire qualcosa. Dal villaggio al castello le cose cambiano, o meglio, i generi si alternano. Il primo è l’elemento di novità, preso in prestito dagli sparatutto in prima persona come Call of Duty o Battlefield, giusto per citarne alcuni. Il castello, invece, rappresenta la tradizione, dove vengono riproposti tutti gli elementi caratteristici della saga. Ora, la domanda vi verrà spontanea: mi piace o no?
Ambientazioni da paura
Troppo spesso non ci si sofferma mai abbastanza ad apprezzare il mondo che ci circonda. Lo facciamo nella vita reale, figuriamoci con i videogiochi. Eppure Resident Evil Village ti costringe a farlo e non ci si può tirare indietro. L’introduzione della photo-mode è un messaggio piuttosto eloquente. Qui, però, si apre un mondo fatto di pregevoli elementi architettonici e dettagli infinitesimali. Si passa dall’imponenza del castello di Alcina Dimitrescu sino ad arrivare al bicchiere sporco di rossetto posto su un tavolo noce e illuminato dalla flebile luce di una candela. Affascinante e terrificante allo stesso tempo.
Voi direte, ma che razza di paragone è? Pacifico pensarlo se non visto in un contesto di insieme. Quando si parla di ambientazione si pensa subito al level design, in primis, per poi passare alla componente artistica. Quello che abbiamo intorno a noi, in realtà, altri non è che la somma degli elementi, piccoli e grandi che siano. Ogni cosa ha un suo perché e sebbene la nostra attenzione sia focalizzata su altro, il subconscio ci porta verso il fattore immersione. Vi è però, a nostro avviso, un visibile difetto narrativo in Resident Evil Village. La nuova dinamiche introdotte da Capcom forse potevano essere distribuite in maniera diversa. Ma questo lo vedremo dopo.
È difficile, anzi, oseremmo dire impossibile non perdersi nell’immensità. Il castello di Alcina è un capolavoro di level design. Le altre 3 residenze che esplorerete nel corso del gioco non riescono a reggere il confronto. È una sorta di battesimo del fuoco, una prova da superare per capire “se siamo degni” di proseguire. Gli enigmi più difficili sono tutti concentrati nelle prima fasi di gioco. Il “vecchio” stile pure.
Ma quello che più ha folgorato la nostra attenzione è quella ricerca maniacale verso dettagli. Capcom non ha lasciato niente al caso, e questa “cura” interessa tutti gli aspetti delle ambientazioni. Dal mobilio al suppellettile, sino ad arrivare ai riflessi delle candele su pavimenti in marmo e sulle mura. Come vi dicevamo all’inizio di questo capitolo della nostra recensione Xbox Series X di Resident Evil Village, il fattore immersione è generato non solo dal gameplay, ma anche dalla somma dei vari elementi.
Il passato, il presente e il futuro
Dopo 25 anni, Resident Evil Village rappresenta il giusto bivio. Che direzione dovrà prendere la saga d’ora in avanti? Vi piace più FPP o FPS? Volete il classico o la novità? Capcom ci ha lanciato dei messaggi nel corso delle nostre 10 ore di gioco, messaggi che potevamo cogliere solo se volevamo. Ma non parliamo “solo” dei manoscritti e dei documenti da recuperare in giro per la mappa. Parliamo di qualcosa di non proprio esplicito, velato ma al tempo stesso molto invasivo.
Iniziamo dal gameplay. Resident Evil Village offre una duplice esperienza: una classica e già vista in Resident Evil VII Biohazard e un’altra assolutamente innovativa. Gli sviluppatori non ne avevano fatto un mistero, annunciando dei cambiamenti piuttosto importanti. L’introduzione dei momenti FPS fa parte di questa nuova tendenza, in forte rottura con lo stile classico della saga. Stona o suona bene? La risposta lo dirà il tempo e soprattutto le reazioni dei giocatori.
Il cast è eccezionale. L’introduzione dei mini-boss, prima di affrontare Madre Miranda, ci è piaciuta. Il problema sorge, invece, lato narrativo. Il gioco sembra notevolmente sbilanciato se lo si guarda nella sua interezza. La parte iniziale, quella che termina con l’estenuante boss fight con Lady Dimitrescu, è di un’intensità emotiva unica. Un continuo crescendo, che culmina con il momento dell’epica battaglia. Ha tutti i requisiti di un gran finale, e infatti è quello che abbiamo pensato. Il resto del gioco non riesce a eguagliare questa parte iniziale, e si resta in attesa di qualcosa che ci assomigli. Le dieci ore di gioco, utili per arrivare alla conclusione di Resident Evil Village, scorrono via e si arriva alla battaglia con Madre Miranda con la convinzione che tanto, in fin dei conti, non sarà mai forte come Alcina Dimitrescu.
La costante resta il buon Ethan Winters, che anche questa volta se la dovrà vedere contro il “resto del mondo”. Per carità, non sarà il Chris Redfield o il Leon Kennedy della situazione, ma in questo ottavo capitolo il ragazzo diventa un eroe. Ne passa di cotte e di crude e alla fine si rialza sempre. E noi, in fin dei conti, lo abbiamo accompagnato in questo suo viaggio iniziato nel 2017. Ci siamo identificati in lui, nel bene e nel male, e la sua determinazione ha cancellato le nostre paure iniziali. Quelle di chi non era abituato ad un Resident Evil in prima persona. Paure che oggi sono svanite e che vedono questo stile narrativo come la strada per i capitoli futuri della serie.