Quanto lo abbiamo atteso questo nuovo Dragon Age? Tanto, e forse troppo. Si è fatto desiderare insomma, come tutte le “Prime Donne” che si rispettino. Eppure l’arrivo di Dragon Age: The Veilguard non è andato proprio come ce lo immaginavamo, complice tutte le voci, dichiarazioni, rumours, simil leak che hanno aleggiato dietro la sua gestazione. Tra smentite e conferme, reboot e cambi di “volti” progettuali, l’attesa è finalmente giunta al termine, ed eccoci di nuovo pronti a tuffarci in una nuova avventura.
Il feeling, sotto il profilo narrativo, è tardato ad arrivare. Troppo tempo è passato da Dragon Age 3: Inquisition e la nostra memoria, per forza di cose, ha fatto “cilecca”. Parliamo di circa 10 anni fa, quando ancora Bioware era la Bioware che conoscevamo, capace di sfornare titoli del calibro di Dragon Age appunto, ma anche Mass Effect. Di lì a poco sarebbe iniziato il momento nero della software house americana, culminato con la disfatta di Anthem. Veilguard era nell’aria, e purtroppo ha assorbito quella carica di negatività che ha colpito inesorabilmente lo sviluppo di questo quarto capitolo della saga.
Storia e personaggi funzionano e sono coerenti rispetto a questo nuovo contesto più frizzante e gioviale concepito per avvicinarsi e rendersi appettibile nei confronti di un nuovo pubblico, non necessariamente “RPGdipendente”. Anche se non si tratta di open world, sotto il profilo artistico il lavoro svolto e sublime e sopraffino, con delle ambientazioni che sorridono al rinnovato potenziale delle console di nuova generazione. L’esperienza oscilla tra le 50 e le 60 ore di gioco, dove lo spartiacque viene tracciato dal famoso e sacrosanto completismo. Bene la parte action, un po’ discutibile, invece, quella ruolistica, presentatasi decisamente senza troppo mordente. Bene, senza incedere oltre vi lasciamo alla nostra recensione di Dragon Age: The Veilguard, giocato nella sua versione per console PS5.
Tutto per colpa di un velo
Esistono dimensioni e realtà che è meglio non stuzzicare. Luoghi in cui vengono “stipati” e rinchiusi antichi mali che l’uomo ha preferito dimenticare, divinità ed entità maligne il cui ritorno sulla terraferma potrebbe significare morte e distruzione. Per tenere la nostra dimensione lontana e separata dalla loro è stato creato il famoso Velo, una sorta di interfaccia magica che funge da barriera contro le forze dei maligni. Qualcuno si accorto che il Velo iniziava ad attirare occhi indiscreti. Un qualcuno di nome Varric, vecchia conoscenza per i navigati della serie di Dragon Age.
L’instancabile guerriero dwarf percepisce che qualcosa non va e le sue indagini lo conducono ad un’altra vecchia conoscenza, Solas, un mago elfico che agisce fuori da ogni legge e giurisdizione (e che in molti sanno che in realtà è molto di più di quello che appare). Quest’ultimo sembra voler intenzionato a compiere un rituale per squarciare il Velo. Varric, dopo aver reclutato noi (nei panni di un eroe che prende il nome di Rook), tenta di fermare a tutti i costi il verosimile incantamento. Ma qualcosa va storto e il regno di Thedas viene invaso da alcuni pericolosi ospiti della dimensione oscura, tra cui alcune divinità elfiche maligne (che reclamano, tra l’altro, a gran voce la testa di Solas).
Per una prima buona parte dell’avventura non si capisce una beneamata fava, con i riferimenti ai precedenti capitoli della saga dati troppo per scontati (soprattutto ad Inquisition). Passata la parentesi di frustrazione, si entra in empatia con la storia dei vari comprimari che ci accompagneranno nel corso dell’avventura (7, per la precisione). Esplorare le loro storie diventa quasi più interessante che conoscere la nostra anche perché, al netto della selezione iniziale del “ramo” del background, vivremo come dei perfetti sconosciuti per tutto il corso dell’avventura.
Un RPG “didattico”, tra essenziale e banale
La partita, sul fronte della valutazione finale, si gioca tutta attorno alla componente RPG di Dragon Age: The Veilguard. Croce e delizia dell’ultima creatura made in Bioware, che riesce ad accontentare e scontentare in maniera costante e progressiva per tutta la durata dell’esperienza di gioco che, a conti fatti, riesce anche a superare le 50 ore. Il nocciolo della questione, essendo Dragon Age una saga che annovera 4 capitoli all’attivo, è il confronto con i precedenti capitoli e il perché di alcune scelte sul fronte gameplay.
È chiaro come il publisher abbia chiesto agli sviluppatori una maggiore inclusione sul fronte dei giocatori, volendo aprire la saga ad una maggiore platea di potenziali giocatori. Non parliamo del solo stile (e ne parleremo tra non molto in una sezione dedicata) ma anche della curva di apprendimento del gameplay, assai meno proibitiva rispetto al passato. È subito un “pronti via”, con delle meccaniche che prediligono l’action, con un parry system elementare ed un sistema di controlli reattivo e frizzante. È chiaro come il tirante arrivi da questa componente del gameplay, molto curata sul fronte delle animazioni e delle spettacolarità.
Lo stesso, purtroppo, non si può dire della componente ruolistica, troppo elementare e poco ispirata. Iniziamo dal build system, che prevede solo 6 componenti di vestizione – di cui solo 2 principali – 2 armi corte ed una lunga. Individuare nuovi loot non è cosa assai facile, è quasi sempre il compito è demandato alle varie casse sparse qua e là nella mappa di gioco. I nemici, per quanto ostici, contribuiscono solo ad aumentare il “numerino” che contribuisce all’elevazione dei punti esperienza del personaggio, con il conseguente ottenimento di punti abilità. Questi ultimi vanno spesi all’interno di uno skill tree oltremodo ramificato, con una progressione che insegue i tratti caratteristici del personaggio creato. Una scelta che funziona da palliativo alla penuria di sottoclassi, figlia altresì, di un numero di classi principali che lascia perplessi.
In combattimento, la selezione e il lancio delle abilità viene demandata ad un selettore che ferma il tempo per darci l’opportunità di scegliere la giusta strategia da adottare sul fronte delle skill – sia le nostre che quelle dei companion guidati dai IA – siano esse offensive che difensive. Il tempo di cooldown viene aggirato dalla foga del combattimento e in men che non si dica siamo di nuovo pronti ad un nuovo giroo di skill.
Lo possiamo definire un Dragon Age?
Una provocazione che potrebbe anche sfociare in una “quasi” critica nei confronti dell’ultima fatica di Bioware, anche in virtù del tempo e delle vicende dietro la sua gestazione. Dire che lo sviluppo è stato travagliato è un eufemismo, al pari di tutti i processi avviati nel bel mezzo del periodo COVID. Leggenda narra che sia durato quasi 10 anni, anche per via di alcuni reboot e cancellazioni di asset progettuali (e turn over forzati di veterani).
I tanti problemi di scrittura che i molti addetti ai lavori hanno sottolineato ed evidenziato al lancio di Dragon Age: The Veilguard, sono degli ipotetici figli di qualche taglio di troppo. A nostro avviso, per quanto presenti (come la scarsa contestualizzazione di alcuni personaggi rispetto all’universo di gioco e i silenti rimandi in ordine alla loro presenza nei capitoli passati), non giungono come invalidanti rispetto alla fruizione generale del prodotto offerto, ma fanno storcere il naso a tutti coloro che lo aspettavano dai tempi di Inquisition.
Sul fronte gameplay, come abbiamo già indicato pocanzi, la scelta è ricaduta su una maggiore semplificazione delle meccaniche di gioco. Un processo che ha interessato tutti i comparti della componente ruolistica, sfociando con un oggettivo riflesso sulla componente action. Ricordiamoci che non abbiamo davanti un souls, ma un action RPG, con una grande spinta sull’acceleratore quando si entra in sessione di combattimento. Se da una parte l’essenzialità rende il tutto più facile, la stessa, dall’altra, aiuta ad apprezzare le reattività dei controlli quando il numero di nemici a schermo inizia a diventare importante.
Sempre restando sul concetto di “essenziale”, anche lo stile utilizzato ricalca, a pieno titolo, questa volontà. Alcuni lo hanno addirittura paragonato a World of Warcraft per stile, ma vi possiamo assicurare che il colpo d’occhio regalato dal mondo di gioco è ben lontano da quei lidi (senza nulla togliere agli artisti di Blizzard). La photo mode, sotto questo preciso aspetto, va (e deve essere) sfruttata nel migliore dei modi.