Nel mezzo del cammin in una spettrale Tokyo ci ritrovammo in Ghostwire: Tokyo, il titolo della nostra recensione di questa esclusiva temporale PS5. Il riferimento dantesco è solo un pretesto narrativo per iniziare il racconto di questa nostra esperienza con l’ultima fatica di Tango Gameworks (sviluppatore) e Bethesda Softworks (publisher). Gli abitanti sono tutti scomparsi per mano del perfido Hannya e il corpo del giovane Akito diventa il tramite della missione di KK. Il viaggio sarà lungo e tortuoso, simile a quello del sommo poeta, ma intriso di leggende popolari orientali.
Se da un lato apprezziamo il risvolto culturale, dall’altro dobbiamo anche dare merito al grandissimo lavoro svolto sul fronte artistico. Le strade della capitale giapponese sono fantastiche. Tra luci e nebbie, gli scorci regalati sono delle cartoline che invitano all’utilizzo della photo-mode. Molto essenziale, questo lo dobbiamo riconoscere, ma pur sempre utile per la causa.
Rispetto ai precedenti lavori, Tango Gameworks punta più all’action che alla narrativa. Le troppe cutscene diventano dei macigni già nel corso della prima ora di gioco. Ok, vanno bene per spezzare il ritmo, ma in un gioco action non si può abusare del loro utilizzo. La natura dinamica del gameplay viene amplificata dall’utilizzo di due modalità grafiche che boostano gli fps puntando ai 120 fps. A pagare le conseguenze di questa scelta è solo la risoluzione. Onestamente, le abbiamo provate entrambe, anche se non ci siamo sentiti di rinunciare al puro godimento estetico. Colpa nostra, questo è poco ma sicuro.
Sul fronte gameplay, le meccaniche di gioco sono complesse ma non complicate. Queste evolvono con la storia, spiegate con una piccola finestra di tutorial in simbiosi con l’azione di gioco. La progressione del personaggio segue il percorso di un ramificato skill tree, che influenza le abilità e lo stile di gioco. Abbiamo ancora molto da dire, e vi lasciamo, quindi, alla nostra recensione di Ghostwire: Tokyo, ultima grande esclusiva temporale di PS5.
Prime impressioni su Ghostwire: Tokyo: Miti, leggende e…legnate
Conoscendo il genio creativo di Shinji Mikami – e il suo modo di creare videogiochi – siamo rimasti piacevolmente colpiti dalla carica action di Ghostwire: Tokyo. La narrazione, dietro il titolo, è sempre in stile cinematografico. Gli alti e bassi, a livello emotivo, si alternano come un metronomo, mantenendo sempre un filo di suspense a livello subliminale. La presenza della nebbia, crea un contesto ambientale alla The Mist, che equivale a morte certa se vi si entra in contatto per un tempo eccessivamente prolungato.
Vestiamo i panni del giovane Akito, che torna in vita diventando il medium di KK. Questi non svela nulla rispetto ai suoi reali intenti, ma con il tempo entra in empatia con il ragazzo, erodendo progressivamente la diga emozionale che si frappone tra i due. Il cattivo della situazione è Hannya. Un potente sortilegio fa svanire tutta la popolazione di Tokyo, lasciando solo animali e anime erranti per le strade. La missione (o missioni se vogliamo considerare anche le secondarie), è quello di purificare le vie della capitale giapponese, infestate dalla presenza dei Visitatori. Ovviamente non tutto è quello che sembra, o che ci si voglia far credere.
Arrivano come dei macigni, invece, alcune scelte – a livello di progettazione – discutibili e anacronistiche. La volontà di affifdare la narrativa alle sole cutscene è opinabile. Quando, però, queste arrivano troppo spesso e interrompono – nel vero senso della parola – l’azione e il momento, iniziano ad essere fastidiose. Le interruzioni si presentano anche nel momento in cui si devono aprire le porte per entrare negli edifici. Sembra di giocare a Resident Evil “vecchia scuola”, quando l’apertura delle porte veniva utilizzato come pretesto per nascondere i caricamenti. Ma ci sono ben 5 generazioni di console rispetto alla PS1, per cui è una scelta che lascia il tempo che trova.
Due aspetti che, sommati tra loro, creano una pericolosa frammentazione del flusso di gioco. Cosa, che in un gioco che dove l’azione è fondamentale, fa “molto male”. A farci dimenticare il tutto ci pensa un’eccezionale direzione artistica. Ogni angolo di Tokyo è come una foto. I vicoletti imbevuti della nebbia spettrale si intrecciano con le flebili luci delle insegne dei negozi. Il tutto si riflette nelle strade bagnate, con specchi d’acqua nati con lo scorrere della pioggia.
Contesto di gioco: L’ultimo titolo horror di Shinji Mikami?
Il designer giapponese Shinji Mikami è un’istituzione nel campo dei videogiochi. Lui ha partorito l’idea dietro i celebri Resident Evil, Dino Crisis e The Evil Within. Dopo aver iniziato la sua carriera in Capcom, e aver lasciato una traccia di sé in Clover Studio e Platinum Games, sembra aver trovato la sua casa con Tango Gameworks, studio creato da lui stesso. I due capitoli di The Evil Within, arrivati sotto l’egida di Bethesda Softworks, hanno tracciato la strada intrapresa in Ghostwire: Tokyo, anche se si percepisce bene l’intenzione del designer giapponese.
Quando sviluppi titoli horror, per una vita intera, è come entrare in una sorta di prigione. Diamine sei il creatore di una saga che, ancora oggi, è una delle più giocate e vendute al mondo. Per quanto la parentesi action (God Hand e Vanquish nel ruolo di Director) siano servite ad uscire fuori dagli schemi, dall’altra parte si percepisce un urlo di un uomo che si è rotto le scatole di creare paura e suspense.
Ghostwire: Tokyo viaggia su una strada che definire ossimorica è una carezza. Tango Gameworks vuole far convivere – sotto lo stesso tetto – paura/suspense con azione e misticismo. Premesso che a noi tutto questo piace alla follia, il gameplay resta troppo ancorato ai primi due si concede timidamente al secondo. Anche elevando i frame, sino a superare il muro dei 60fps, i movimenti restano ingessati. Sarebbe stato bello, in tal senso, che il gioco venisse concepito al contrario, partendo appunto dalla frenesia e dall’action. Immaginate un Ghostrunner made in Mikami & Co. Sarebbe stata una follia allo stato puro.
Sotto il profilo artistico è un vero godimento, e questo lo abbiamo già detto e ne parleremo ancora nella sezione dedicata. Ma il perché non si è voluto osare di più, a nostro modesto avviso, resta un vero mistero. Ancora più fitto di quello che ci aspetta in Ghostwire: Tokyo.
Gameplay di Ghostwire: Tokyo: Un FPP o un FPS? O Survival Action?
La differenza tra FPP e FPS vive in due componenti, quella narrativa e quella action. Nei First Person Perspective la storia è raccontata in prima persona, e non vengono richieste le nostri doti di prontezza di riflessi ma solo quelle intellettive e di ragionamento. In un certo senso, è un gameplay ragionato. Nei First Person Shooter, invece, si combatte con un’arma in mano, sempre e comunque. La storia, il più delle volte, è un elemento di contesto. Se c’è ok, ma se manca non si sente la sua mancanza.
Ghostwire: Tokyo vuole distanziarsi dal mondo degli FPP, per dirigersi verso quello degli FPS. Gli attacchi eterei sono “l’arma” e la narrativa viene affidata alle cutscene. La componente ruolistica ci permette di apprezzare la presenza di uno skill tree ramificato al punto giusto. Lo sviluppo va ad incidere sulle caratteristiche fisiche del personaggio, le sua abilità e l’arma secondaria. Per ottenere punti da spendere occorre “fare”. Non vi è un decalogo da seguire, ma solo svolgere il nostro lavoro di purificatori.
Le forze della natura sono dalla nostra parte, quelle del male, invece, non vedono l’ora di farci ritornare da dove siamo venuti. Siamo noi, quindi, a scegliere il tipo di approccio da seguire. La specializzazione del personaggio funziona come una build e veicola il modo di combattere di Akito. I Visitatori non stanno lì a guardare per cui siete avvisati.
Di cose da fare ce ne sono parecchie in questa desolata Tokyo. Accanto alle missioni principali vi sono quelle secondarie che non seguono il flusso narrativo della trama. Queste, infatti, raccontano storie che affondano le loro radici nei miti e nelle leggende, dove il fine coincide sempre con la purificazione di luoghi e oggetti. Il ritmo di gioco nelle side quest cambia, divenendo, talvolta, più vicino a quello di un FPP. È come se fossero due giochi in uno, anche se chi vi scrive ci ha visto un saluto tacito di un uomo che ha scritto un pezzo della storia dei videogiochi. Ciao Shinji, e grazie per tutto quello che hai fatto e che ancora continuerai a fare.
Dimensione artistica: Saluti da una spettrale Tokyo
Uno dei grandi rammarici di Ghostwire: Tokyo è la presenza di una photo mode che definire essenziale è quasi un complimento. Le strade deserte della capitale giapponese sono il Valhalla della fotografia. Ogni elemento è posizionato in maniera che oseremmo giudicare come perfetta. Ombrelli abbandonati sul ciglio della strada, con accanto un cappello e una scarpa. Specchi d’acqua creati dagli acquazzoni improvvisi e intermittenti. La sinergia tra i vari elementi di contesto è quasi incredibile ed è il volano per garantire un fattore immersione costante e continuo.
Dietro tutto questo grandioso lavoro artistico, ci sono, però, storie e precise volontà. Tango Gameworks costruisce una Tokyo moderna ma sempre legata al suo passato. Templi, statuette e preghiere svelano storie e racconti del folklore giapponese. Sono cose che, solitamente, abbiamo solo visto su pellicola e mai, prima d’ora, narrate in un videogioco. Non è facile presentarle senza banalizzarle, e Ghostwire: Tokyo ci riesce. In verità va anche oltre, stimolando curiosità e voglia di approfondire.
Restando invece sul “tecnico”, si possono scegliere ben 3 modalità grafiche da utilizzare nel corso del gioco, con la facoltà di cambiarle nel mentre. “Qualità” punta tutto sul 4K e la presenza del ray tracing sempre attivo. Il tributo da pagare, in termini di frame per secondo, ci obbliga a restare intorno ai 30fps, anche se abbiamo notato dei cali vistosi, soprattutto in alcune cutscene.
La modalità Performance propone, invece, due soluzioni. Una più bilanciata che ci permette di giocare con una risoluzione 1440p a 60fps, e un’altra che promette di toccare i 120 fps in Full HD. Le abbiamo provate entrambe e, a livello di fluidità, se paragonate con la prima sono fantastiche. Il nostro lato artistico non se l’è sentita di voltare le spalle al grande lavoro svolto da Tango Gameworks, pur sapendo che perdevamo una marea di fps per strada. La speranza è quella di vedere una modalità ibrida in un futuro prossimo ma non troppo remoto.
In conclusione
Shinji Mikami dimostra, ancora una volta, che nel mondo dei videgiochi è una vera e propria un’autorità. Ghostwire: Tokyo possiede una carica magnetica che diviene sempre più forte con l’avanzare della storia. Complesso nelle sue meccaniche base ma mai complicato. Ogni feature viene spiegata nei minimi dettagli, somministrando un training on the job tanto efficace quanto utile. La storia si dimostra timida nelle parti iniziali, e diventa dannatamente catchy dal terzo capitolo in avanti. Ma non vi aspettate quella profondità a cui ci ha abituati, sino ad oggi, il game designer giapponese.
Le meccaniche di gioco guardano con interesse il mondo degli FPS, anche se si respira, in alcuni frangenti, aria di FPP. La progressione del personaggio è affidata ad uno skill tree che punta verso una specializzazione quasi obbligata. Il concetto di build non è apertamente dichiarato, anche se la presenza delle mod ne è un testimone. Tutte le feature di PS5 sono sfruttate al massimo della loro potenza. Sotto il profilo artistico, invece, è un vero e proprio godimento. Le spettrali strade di Tokyo regalano delle cartoline da sogno, degne di una locandina per film horror. Che sia magari un segno…