La serie di The Dark Pictures Anthology si arricchisce con un nuovo capitolo, The Devil in Me, il titolo di questa nostra recensione per console PS5. Rispetto alle nove avventure promesse da SuperMassive Games siamo a quota 4, portando a termine la prima stagione e in attesa di una seconda che, al momento, non è ancora inserita in calendario. I questi 4 capitoli, il papà di Until Dawn – salvo una brevissima parentesi con The Quarry – ha sviluppato una storia episodica dove l’unico filo conduttore è stata la presenza del Curatore.
Ogni capitolo vive e muore, con un tema a farne da padrone e una storia che lambisce fatti reali ma liberamente interpretati. Man of Medan ci ha portato a bordo della SS Ourang Medan, Little Hope ci proietta ai tempi della caccia alle streghe, House of Ashes, infine, disvela nelle viscere della terra l’esistenza della mitologica Babilonia. Il pretesto “storico” è un modo intelligente per coinvolgere il giocatore in qualcosa che conosce e che appartiene alla realtà.
The Devil in Me, al pari dei precedenti 3 capitoli, ci vuole raccontare una storia, quella del primo serial Killer americano. 27 omicidi a lui imputati, anche se si ritengono molti di più, quasi tutti commessi all’interno del suo castello degli orrori, il World’s Fair Hotel. Il gioco inizia, come di consueto, con un prologo di matrice storica che ci ricongiunge ai giorni nostri. Solo un modo per introdurci nel contesto degli eventi di questo quarto capitolo della serie The Dark Pictures Anthology.
Concludiamo, quindi, questa Season 1 esplorando una nuova dimensione della paura. Come sempre, ogni nostra scelta porterà a delle conseguenze, che, sommate tra loro, condurrano ad uno dei diversi finali previsti. Senza perdere ulteriore tempo, vi lasciamo alla nostra recensione di The Devil in Me, titolo, vi ricordiamo, giocato nella sua versione per console PS5.
Prime impressioni: Un escape game mortale
È passato poco più di anno dall’ultima avventura di House of Ashes. Il terzo capitolo della saga The Dark Pictures Anthology, con un biglietto di sola andata verso le profondità della terra, aveva toccato il genere sci-fi/horror, aprendo la strada verso il cruento. La trama apparve “scontata” sin dalle prime battute, con quei mutaforma che all’inizio sembravano degli strani vampiri ma che poi si sono rivelati tutt’altro.
Ora il nemico è un “solo” uomo, o meglio il remake di un altro realmente esistito. Non andiamo oltre su quest’aspetto, onde evitare sgradevoli spoiler, ma l’idea di avere a che fare con un serial killer all’interno di un escape game è molto allettante. Il ricordo è andato al mitico SAW L’enigmista, anche se la componente psicologica non è così preponderante come la pellicola di James Wan.
Qui è tutto molto più semplice. Fai delle scelte e beccati le conseguenze. L’ansia da prestazione viene enfatizzata da alcuni graditi ritorni come il controllo del battito cardiaco e le sequenze in cui non si deve far rumore per attirare l’attenzione del carnefice. L’aggiunta di peso è data dai momenti stealth, dove ci si deve nascondere per evitare sguardi che possono decretare la nostra fine anzitempo.
La prima parte del gioco, quella in esterna, ha attirato tutta la nostra attenzione sotto il profilo artistico. La cura dei dettagli, e la fotografia degli scenari in genere, è tra le migliori dei 4 capitoli. Fuori concorso, se la gioca sicuramente con The Quarry. Quello che ci è piaciuto forse meno sono stati i movimenti dei protagonisti, troppo legnosi e talvolta poco verosimili. Ed è qui che si è compreso come questa Season 1 sia arrivata “stanca” al suo capitolo finale.
Contesto di gioco: Le forme della paura
The Devil in Me ci fa rivivere, in chiave assolutamente moderna, quelle che accadde all’interno del World’s Fair Hotel. Un tale di nome Granthem Du’Met, all’apparenza presentatosi come un misterioso benefattore, invita tutta la crew della Lonnit Entertainment nella sua residenza sita su un’isola vicino alle coste del lago Michigan. Il sig. Du’Met è un collezionista di artefatti e cimeli appartenenti al noto serial killer H.H. Holmes, e l’idea di poter girare un episodio della loro serie dedicata ai famosi omicidi alletta quasi tutto lo staff.
Forse più per denaro che per puro spirito di avventura, il gruppo capitanato dall’introverso Charlie Lonnit si imbarca verso quella che potrebbe essere la fine anticipata del loro programma televisivo. È chiaro sin da subito che qualcosa non torna. Il sig. Du’Met sembra nascondere qualcosa e il contesto dell’isola è tutto fuorché idilliaco. La più sveglia del gruppo, la reporter Kate Wilder, capisce subito che c’è molto di più di quello che sembra.
La formula del survival horror, in questa occasione, viene somministrata in formato escape game. Sinora si era rimasti in un qualcosa che era legato alla parte esplorativa. Volendo trovare delle similitudini con qualcosa che conosciamo molto bene, il contesto è simile a quello di Resident Evil, meno la componente fantastica dei diabolici enigmi. Il tutto va pesato nell’economia della stagione 1, ricordando quanto visto nei primi 3 episodi.
Supermassive Games si è limitata a non stravolgere mai le dinamiche di gameplay ma solo ad effettuare dei piccoli fix tra un capitolo e l’altro. Di contro si è spesa oltremodo per realizzare sempre una storia convincente quanto credibile, con personaggi in grado di rendere al meglio. Tolto Man of Medan, Little Hope e House of Ashes, hanno evidenziato un breve declino della componente creativa. The Devil in Me interrompe questo trend negativo ma senza grossi scossoni. Non vi aspettate gli stessi scary moment vissuti all’interno della SS Ourang Medan.
Gameplay: Alcune novità sì, ma non troppe
The Devil in Me, al pari dei suoi predecessori, propone un gameplay basato sulle dinamiche del causa-effetto. Ad ogni nostra azione corrisponde una conseguenza, che può manifestare i suoi effetti nell’immediato ma anche nel lungo termine. Vi sono diversi fattori da tener presente prima di capire se una scelta fatta ci porta all’effetto desiderato, ma non esiste mai una “scelta giusta”. Si prende una decisione e si attende l’esito, bello o brutto che sia.
Non vale nemmeno il discorso legato al personaggio principale, visto che morto un papa se ne fa un altro. È quasi impossibile non simpatizzare per uno piuttosto che un altro, come anche individuarne qualcuno non necessario per lo svolgersi degli eventi. Resta il fatto che le relazioni e i connotati caratteriali giocano un ruolo fondamentale per l’interazione tra i vari protagonisti della storia. Non siamo ancora ai livelli di un’intelligenza artificiale in grado di interpretare i comportamenti, magari nella season 2 qualcosa cambia.
I Quick Time Event tornano più in forma che mai. In alcuni momenti verrà richiesto uno sforzo ai nostri riflessi affinché si raggiunga un determinato obiettivo. Non è detto che però la nostra bravura venga premiata con un qualcosa di non doloroso. A volte, infatti, è meglio perdere che trovare. Lasciando da parte modi di dire e luoghi comuni, è interessante la presenza dei momenti stealth, un qualcosa di già visto in House of Ashes e a tratti in The Quarry.
Tra le assolute novità troviamo la possibilità di evitare gli sguardi indiscreti, nascondendosi o celando la propria presenza. Può sembrare, passateci il termine, una “fesseria” ma il tutto diventa coerente quando c’è la propria vita in gioco. Sicuramente, nelle sessioni in esterna assume una connotazione diversa rispetto ai momenti claustrofobici del tremendo escape game che ci attende dentro la residenza del sig. Du’Met.
Dimensione Artistica: Bene, ma non benissimo
Un crescendo sotto il profilo grafico, ma per il resto vi sono ancora alcuni grandi interrogativi che necessitano una risposta rapida. The Devil in Me ci porta a fare questa considerazione, al netto delle tre precedenti esperienze. La nuova generazione di console è servita, senza ombra di dubbio, ad enfatizzare le doti realizzative di Supermassive Games. I comparti grafico e sonoro dell’intera saga sono ineccepibili, e sappiamo tutti quanto queste componenti incidano in un survival degno di questo nome.
Se da una parte il “progresso” è servito ad allietare il palato del gamer esigente, da una altra vi sono degli aspetti che inspiegabilmente sono rimasti tali senza interventi correttivi. Le animazioni, in primis, appaiono piuttosto datate e talvolta anche poco verosimili. Stesso discorso vale per la mimica facciale e gli sguardi, che non sembrano minimamente far trasparire l’enfasi del momento. La sequenza iniziale, sotto questo aspetto, ci regala dei momenti piuttosto dubbi.
Arrivati al termine della stagione, e senza essere intervenuti su questi aspetti (elementi già noti in Man of Medan), fa capire come la saga sia arrivata “stanca”, o quanto meno con la voglia guardare oltre. Lo abbiamo visto in Life is Strange: True Colors come questo dettaglio serva a concretizzare al meglio il fattore immersione e vivere ogni momento di gioco. Un survival non può non tener conto di questo aspetto e la Season 2 deve, senza ombra di dubbio, intervenire nel migliore dei modi.
Le sequenze in esterno regalano degli scenari che ci hanno fatto tornare in mente quanto visto in The Quarry, seppur il titolo non appartenesse alla saga di The Dark Pictures Anthology. Quell’isola con il faro è stato è un bel tributo alla terrificante esperienza vissuta nel campeggio estivo di Hackett’s Quarry. Una cura dei dettagli sopra le righe, d’altronde sotto questo aspetto, Supermassive Games non ci ha mai deluso.
In conclusione
Giunge il momento di tirare le somme rispetto alla nuova esperienza con il quarto capitolo della saga The Dark Pictures Anthology. The Devil in Me, come i suoi predecessori, si affida alla storia per raccontare una storia. Questa volta al primo serial killer americano, che ritorna ai giorni nostri con un efferatezza che lascia basiti. Quell’ondata cruenta che aveva toccato le coste di The House of Ashes, diventa una marea in questo nuovo episodio. Scelta che ci sembra giusta, anche rispetto alla tematica trattata.
Ma non basta affidarsi, solo, al gore ed alla violenza per stimolare l’interesse del pubblico. Gli scary moment mancano già da qualche capitolo a questa parte, e la cosa non è un bene per un survival horror. Bene il gameplay che introduce alcune nuove dinamiche dall’aspetto molto interessante. Un po’ meno le animazioni dei personaggi, che richiedono un intervento di restyle non indifferente. Dimensione artistica, invece, sempre al top della forma.